Cavalleria rusticana

Turiddu Macca, il figlio della gná Nunzia, come tornó da fare il soldato, ogni domenica si pavoneggiava in piazza coll'uniforme da bersagliere e il berretto rosso, che sembrava quella della buona ventura, quando mette su banco colla gabbia dei canarini. Le ragazze se lo rubavano cogli occhi, mentre andavano a messa col naso dentro la mantellina, e i monelli gli ronzavano attorno come le mosche. Egli aveva portato anche una pipa col re a cavallo che pareva vivo, e accendeva gli zolfanelli sul dietro dei calzoni, levando la gamba, come se desse una pedata. Ma con tutto ció Lola di massaro Angelo non si era fatta vedere né alla messa, né sul ballatoio, ché si era fatta sposa con uno di Licodia, il quale faceva il carrettiere e aveva quattro muli di Sortino in stalla. Dapprima Turiddu come lo seppe, santo diavolone! voleva trargli fuori le budella della pancia, voleva trargli, a quel di Licodia! Peró non ne fece nulla, e si sfogó coll'andare a cantare tutte le canzoni di sdegno che sapeva sotto la finestra della bella.

— Che non ha nulla da fare Turiddu della gná Nunzia

— dicevano i vicini — che passa la notte a cantare come una passera solitaria?

Finalmente s'imbatté in Lola che tornava dal viaggio alla Madonna del Pericolo, e al vederlo, non si fece né bianca né rossa quasi non fosse stato fatto suo.

— Beato chi vi vede! — le disse.

— Oh, compare Turiddu, me l'avevano detto che siete tornato al primo del mese.

— A me mi hanno detto delle altre cose ancora! — rispose lui. — Che é vero che vi maritate con compare Alfio, il carrettiere?

— Se c'é la volontá di Dio! — rispose Lola, tirandosi sul mento le due cocche del fazzoletto.

— La volontá di Dio la fate col tira e molla come vi torna conto! E la volontá di Dio fu che dovevo tornare da tanto lontano per trovare ste belle notizie, gná Lola!

Il poveraccio tentava di fare ancora il bravo, ma la voce gli si era fatta roca; ed egli andava dietro alla ragazza, dondolandosi colla nappa del berretto che gli ballava di qua e di lá sulle spalle. A lei, in coscienza, rincresceva di vederlo cosí col viso lungo, peró non aveva cuore di lusingarlo con belle parole.

— Sentite, compare Turiddu, — gli disse alfine — lasciatemi raggiungere le mie compagne. Che direbbero in paese se mi vedessero con voi? ...

— é giusto — rispose Turiddu; — ora che sposate compare Alfio, che ci ha quattro muli in stalla, non bisogna farla chiacchierare la gente. Mia madre invece, poveretta, la dovette vendere la nostra mula baia, e quel pezzetto di vigna sullo stradone nel tempo ch'ero soldato. Passó quel tempo che Berta filava, e voi non ci pensate piú al tempo in cui ci parlavamo dalla finestra sul cortile, e mi regalaste quel fazzoletto, prima d'andarmene, che Dio sa quante lacrime ci ho pianto dentro nell'andar via lontano tanto che si perdeva persino il nome del nostro paese. Ora addio, gná Lola, facemu cuntu ca chioppi e scampau, e la nostra amicizia finiu.

La gná Lola si maritó col carrettiere; e la domenica si metteva sul ballatoio, colle mani sul ventre per far vedere tutti i grossi anelli d'oro che le aveva regalati suo marito. Turiddu seguitava a passare e ripassare per la stradicciuola, colla pipa in bocca e le mani in tasca, in aria d'indifferenza, e occhieggiando le ragazze; ma dentro ci si rodeva che il marito di Lola avesse tutto quell'oro, e che ella fingesse di non accorgersi di lui quando passava.

— Voglio fargliela proprio sotto gli occhi a quella cagnaccia!

— borbottava.

Di faccia a compare Alfio ci stava massaro Cola, il vignaiuolo, il quale era ricco come un maiale, dicevano, e aveva una figliuola in casa. Turiddu tanto disse e tanto fece che entró camparo da massaro Cola, e cominció a bazzicare per la casa e a dire le paroline dolci alla ragazza.

— Perché non andate a dirle alla gná Lola ste belle cose? — rispondeva Santa.

— La gná Lola é una signorona! La gná Lola ha sposato un re di corona, ora!

— Io non me li merito i re di corona.

— Voi ne valete cento delle Lole, e conosco uno che non guarderebbe la gná Lola, né il suo santo, quando ci siete voi, ché la gná Lola, non é degna di portarvi le scarpe, non é degna.

— La volpe quando all'uva non poté arrivare ...

— Disse: come sei bella, ^racinedda mia!

— Ohé! quelle mani, compare Turiddu.

— Avete paura che vi mangi?

— Paura non ho né di voi, né del vostro Dio.

— Eh! vostra madre era di Licodia, lo sappiamo! Avete il sangue rissoso! Uh! che vi mangerei cogli occhi.

— Mangiatemi pure cogli occhi, che briciole non ne faremo; ma intanto tiratemi su quel fascio.

— Per voi tirerei su tutta la casa, tirerei!

Ella, per non farsi rossa, gli tiró un ceppo che aveva sottomano, e non lo colse per miracolo.

— Spicciamoci, che le chiacchiere non ne affastellano sarmenti.

— Se fossi ricco, vorrei cercarmi una moglie come voi, gná Santa.

— Io non sposeró un re di corona come la gná Lola, ma la mia dote ce l'ho anch'io, quando il Signore mi manderá qualcheduno.

— Lo sappiamo che siete ricca, lo sappiamo!

— Se lo sapete allora spicciatevi, ché il babbo sta per venire, e non vorrei farmi trovare nel cortile.

Il babbo cominciava a torcere il muso, ma la ragazza fingeva di non accorgersi, poiché la nappa del berretto del bersagliere gli aveva fatto il solletico dentro il cuore, e le ballava sempre dinanzi gli occhi. Come il babbo mise Turiddu fuori dell'uscio, la figliuola gli aprí la finestra, e stava a chiacchierare con lui ogni sera, che tutto il vicinato non parlava d'altro.

— Per te impazzisco — diceva Turiddu — e perdo il sonno e l'appetito.

— Chiacchiere!

— Vorrei essere il figlio di Vittorio Emanuele per sposarti!

— Chiacchiere!

— Per la Madonna che ti mangerei come il pane!

— Chiacchiere!

— Ah! sull'onor mio!

— Ah! mamma mia!

Lola che ascoltava ogni sera, nascosta dietro il vaso di basilisco, e si faceva pallida e rossa, un giorno chiamó Turiddu.

— E cosí, compare Turiddu, gli amici vecchi non si salutano piú?

— Ma! — sospiró il giovinotto — beato chi puó salutarvi!

— Se avete intenzione di salutarmi, lo sapete dove sto di casa! — rispose Lola.

Turiddu tornó a salutarla cosí spesso che Santa se ne avvide, e gli batté la finestra sul muso. I vicini se lo mostravano con un sorriso, o con un moto del capo, quando passava il bersagliere. Il marito di Lola era in giro per le fiere con le sue mule.

— Domenica voglio andare a confessarmi, ché stanotte ho sognato dell'uva nera! — disse Lola.

— Lascia stare! lascia stare! — supplicava Turiddu.

— No, ora che s'avvicina la Pasqua, mio marito lo vorrebbe sapere il perché non sono andata a confessarmi.

— Ah! — mormorava Santa di massaro Cola, aspettando ginocchioni il suo turno dinanzi al confessionario dove Lola stava facendo il bucato dei suoi peccati. — Sull'anima mia non voglio mandarti a Roma per la penitenza!

Compare Alfio tornó colle sue mule, carico di soldoni, e portó in regalo alla moglie una bella veste nuova per le feste.

— Avete ragione di portarle dei regali — gli disse la vicina Santa — perché mentre voi siete via vostra moglie vi adorna la casa!

Compare Alfio era di quei carrettieri che portano il berretto sull'orecchio, e a sentir parlare in tal modo di sua moglie cambió di colore come se l'avessero accoltellato.

— Santo diavolone! — esclamó — se non avete visto bene, non vi lascieró gli occhi per piangere! a voi e a tutto il vostro parentado!

— Non son usa a piangere! rispose Santa — non ho pianto nemmeno quando ho visto con questi occhi Turiddu della gná Nunzia entrare di notte in casa di vostra moglie.

— Va bene, — rispose compare Alfio — grazie tante.

Turiddu, adesso che era tornato il gatto, non bazzicava piú di giorno per la stradicciuola, e smaltiva l'uggia all'osteria, cogli amici. La vigilia di Pasqua avevano sul desco un piatto di salsiccia. Come entró compare Alfio, soltanto dal modo in cui gli piantó gli occhi addosso, Turiddu comprese che era venuto per quell'affare e posó la forchetta sul piatto.

— Avete comandi da darmi, compare Alfio? — gli disse.

— Nessuna preghiera, compare Turiddu, era un pezzo che non vi vedevo, e voleva parlarvi di quella cosa che sapete voi.

Turiddu da prima gli aveva presentato il bicchiere, ma compare Alfio lo scansó colla mano. Allora Turiddu si alzó e gli disse:

— Son qui, compar Alfio.

Il carrettiere gli buttó le braccia al collo.

— Se domattina volete venire nei fichidindia della Canziria potremo parlare di quell'affare, compare.

— Aspettatemi sullo stradone allo spuntar del sole, e ci andremo insieme.

Con queste parole si scambiarono il bacio della sfida. Turiddu strinse fra i denti l'orecchio del carrettiere, e cosí gli fece promessa solenne di non mancare.

Gli amici avevano lasciato la salsiccia zitti zitti, e accompagnarono Turiddu sino a casa. La gná Nunzia, poveretta, l'aspettava sin tardi ogni sera.

— Mamma, — le disse Turiddu — vi rammentate quando sono andato soldato, che credevate non avessi a tornar piú? Datemi un bel bacio come allora, perché domattina andró lontano.

Prima di giorno si prese il suo coltello a molla, che aveva nascosto sotto il fieno, quando era andato coscritto, e si mise in cammino pei fichidindia della Canziria.

— Oh! Gesummaria! dove andate con quella furia? - piagnucolava Lola sgomenta, mentre suo marito stava per uscire.

— Vado qui vicino, — rispose compar Alfio — ma per te sarebbe meglio che io non tornassi piú.

Lola, in camicia, pregava ai piedi del letto, premendosi sulle labbra il rosario che le aveva portato fra Bernardino dai Luoghi Santi, e recitava tutte le avemarie che potevano capirvi.

— Compare Alfio, — cominció Turiddu dopo che ebbe fatto un pezzo di strada accanto al suo compagno, il quale stava zitto, e col berretto sugli occhi, — come é vero Iddio so che ho torto e mi lascierei ammazzare. Ma prima di venir qui ho visto la mia vecchia che si era alzata per vedermi partire, col pretesto di governare il pollaio, quasi il cuore le parlasse, e quant'é vero Iddio vi ammazzeró come un cane per non far piangere la mia vecchierella.

— Cosí va bene, — rispose compare Alfio, spogliandosi del farsetto — e picchieremo sodo tutt'e due.

Entrambi erano bravi tiratori; Turiddu toccó la prima botta, e fu a tempo a prenderla nel braccio; come la rese, la rese buona, e tiró all'anguinaia.

— Ah! compare Turiddu! avete proprio intenzione di ammazzarmi!

— Sí, ve l'ho detto; ora che ho visto la mia vecchia nel pollaio, mi pare di averla sempre dinanzi agli occhi.

— Apriteli bene, gli occhi! — gli gridó compar Alfio - che sto per rendervi la buona misura.

Come egli stava in guardia tutto raccolto per tenersi la sinistra sulla ferita, che gli doleva, e quasi strisciava per terra col gomito, acchiappó rapidamente una manata di polvere e la gettó negli occhi all'avversario.

— Ah! — urló Turiddu accecato — son morto.

Ei cercava di salvarsi, facendo salti disperati all'indietro; ma compar Alfio lo raggiunse con un'altra botta nello stomaco e una terza alla gola.

— E tre! questa é per la casa che tu m'hai adornato. Ora tua madre lascerá stare le galline.

Turiddu annaspó un pezzo di qua e di lá tra i fichidindia e poi cadde come un masso. Il sangue gli gorgogliava spumeggiando nella gola, e non poté profferire nemmeno: — Ah, mamma mia!

La lupa

Era alta, magra, aveva soltanto un seno fermo e vigoroso da bruna — e pure non era piú giovane — era pallida come se avesse sempre addosso la malaria, e su quel pallore due occhi grandi cosí, e delle labbra fresche e rosse, che vi mangiavano. Al villaggio la chiamavano la Lupa perché non era sazia giammai — di nulla. Le donne si facevano la croce quando la vedevano passare, sola come una cagnaccia, con quell'andare randagio e sospettoso della lupa affamata; ella si spolpava i loro figliuoli e i loro mariti in un batter d'occhio, con le sue labbra rosse, e se li tirava dietro alla gonnella solamente a guardarli con quegli occhi da satanasso, fossero stati davanti all'altare di Santa Agrippina. Per fortuna la Lupa non veniva mai in chiesa, né a Pasqua, né a Natale, né per ascoltar messa, né per confessarsi. — Padre Angiolino di Santa Maria di Gesú, un vero servo di Dio, aveva persa l'anima per lei. Maricchia, poveretta, buona e brava ragazza, piangeva di nascosto, perché era figlia della Lupa, e nessuno l'avrebbe tolta in moglie, sebbene ci avesse la sua bella roba nel cassettone, e la sua buona terra al sole , come ogni altra ragazza del villaggio. Una volta la Lupa si innamoró di un bel giovane che era tornato da soldato, e mieteva il fieno con lei nelle chiuse del notaro; ma proprio quello che si dice innamorarsi, sentirsene ardere le carni sotto al fustagno del corpetto, e provare, fissandolo negli occhi, la sete che si ha nelle ore calde di giugno, in fondo alla pianura. Ma lui seguitava a mietere tranquillamente col naso sui manipoli, e le diceva: — O che avete, gná Pina? — Nei campi immensi, dove scoppiettava soltanto il volo dei grilli, quando il sole batteva a piombo, la Lupa affastellava manipoli su manipoli, e covoni su covoni, senza stancarsi mai, senza rizzarsi un momento sulla vita, senza accostare le labbra al fiasco, pur di stare sempre alle calcagna di Nanni, che mieteva e mieteva, e le domandava di quando in quando:

— Che volete, gná Pina? Una sera ella glielo disse, mentre gli uomini sonnecchiavano nell'aia, stanchi dalla lunga giornata, ed i cani uggiolavano per la vasta campagna nera: — Te voglio! Te che sei bello come il sole, e dolce come il miele. Voglio te!

— Ed io invece voglio vostra figlia, che é zitella — rispose Nanni ridendo. La Lupa si cacció le mani nei capelli, grattandosi le tempie senza dir parola, e se ne andó; né piú comparve nell'aia. Ma in ottobre rivide Nanni, al tempo che cavavano l'olio, perché egli lavorava accanto alla sua casa, e lo scricchiolio del torchio non la faceva dormire tutta notte.

— Prendi il sacco delle olive, — disse alla figliuola — e vieni con me. Nanni spingeva con la pala le olive sotto la macina, e gridava 'Ohi!' alla mula perché non si arrestasse. — La vuoi mia figlia Maricchia? — gli domandó la gná Pina. - Cosa gli date a vostra figlia Maricchia? — rispose Nanni.

— Essa ha la roba di suo padre, e dippiú io le do la mia casa; a me mi basterá che mi lasciate un cantuccio nella cucina per stendervi un po' di pagliericcio. — Se é cosí se ne puó parlare a Natale — disse Nanni. Nanni era tutto unto e sudicio dell'olio e delle olive messe a fermentare, e Maricchia non lo voleva a nessun patto; ma sua madre l'afferró pe' capelli, davanti al focolare, e le disse co' denti stretti:

— Se non lo pigli, ti ammazzo! La Lupa era quasi malata, e la gente andava dicendo che il diavolo quando invecchia si fa eremita.. Non andava piú di qua e di lá; non si metteva piú sull'uscio, con quegli occhi da spiritata. Suo genero, quando ella glieli piantava in faccia, quegli occhi, si metteva a ridere, e cavava fuori l'abitino della Madonna per segnarsi. Maricchia stava in casa ad allattare i figliuoli, e sua madre andava nei campi, a lavorare cogli uomini, proprio come un uomo, a sarchiare, a zappare, a governare le bestie, a potare le viti, fosse stato greco e levante di gennaio, oppure scirocco di agosto, allorquando i muli lasciavano cader la testa penzoloni, e gli uomini dormivano bocconi a ridosso del muro a tramontana. In quell'ora fra vespero e nona, in cui non ne va in volta femmina buona, la gná Pina era la sola anima viva che si vedesse errare per la campagna, sui sassi infuocati delle viottole, fra le stoppie riarse dei campi immensi, che si perdevano nell'afa, lontan lontano, verso l'Etna nebbioso, dove il cielo si aggravava sull'orizzonte.

— Svegliati! — disse la Lupa a Nanni che dormiva nel fosso, accanto alla siepe polverosa, col capo fra le braccia. - Svegliati, che ti ho portato il vino per rinfrescarti la gola. Nanni spalancó gli occhi imbambolati, tra veglia e sonno, trovandosela dinanzi ritta, pallida, col petto prepotente, e gli occhi neri come il carbone, e stese brancolando le mani.

— No! non ne va in volta femmina buona nell'ora fra vespero e nona! — singhiozzava Nanni, ricacciando la faccia contro l'erba secca del fossato, in fondo in fondo, colle unghie nei capelli. — Andatevene! andatevene! non ci venite piú nell'aia! Ella se ne andava infatti, la Lupa, riannodando le trecce superbe, guardando fisso dinanzi ai suoi passi nelle stoppie calde, cogli occhi neri come il carbone. Ma nell'aia ci tornó delle altre volte, e Nanni non le disse nulla. Quando tardava a venire anzi, nell'ora fra vespero e nona, egli andava ad aspettarla in cima alla viottola bianca e deserta, col sudore sulla fronte;e dopo si cacciava le mani nei capelli, e le ripeteva ogni volta:

— Andatevene! andatevene! Non ci tornate piú nell'aia! Maricchia piangeva notte e giorno, e alla madre le piantava in faccia gli occhi ardenti di lagrime e di gelosia, come una lupacchiotta anch'essa, allorché la vedeva tornare da' campi pallida e muta ogni volta.

— Scellerata! — le diceva. — Mamma scellerata!

— Taci!

— Ladra! ladra!

— Taci!

— Andró dal brigadiere, andró!

— Vacci! E ci andó davvero, coi figli in collo, senza temere di nulla, e senza versare una lagrima, come una pazza, perché adesso l'amava anche lei quel marito che le avevano dato per forza, unto e sudicio delle olive messe a fermentare. Il brigadiere fece chiamare Nanni; lo minacció sin della galera e della forca. Nanni si diede a singhiozzare ed a strapparsi i capelli; non negó nulla, non tentó di scolparsi. la tentazione! — diceva — é la tentazione dell'inferno! Si buttó ai piedi del brigadiere supplicandolo di mandarlo in galera.

— Per caritá, signor brigadiere, levatemi da questo inferno! fatemi ammazzare, mandatemi in prigione; non me la lasciate veder piú, mai! mai!

— No! — rispose invece la Lupa al brigadiere — Io mi son riserbato un cantuccio della cucina per dormirvi, quando gli ho data la mia casa in dote. La casa é mia. Non voglio andarmene. Poco dopo, Nanni s'ebbe nel petto un calcio dal mulo, e fu per morire; ma il parroco ricusó di portargli il Signore se la Lupa non usciva di casa. La Lupa se ne andó, e suo genero allora si poté preparare ad andarsene anche lui da buon cristiano; so confessó e comunicó con tali segni di pentimento e di contrizione che tutti i vicini e i curiosi piangevano davanti al letto del moribondo. E meglio sarebbe stato per lui che fosse morto in quel giorno, prima che il diavolo tornasse a tentarlo e a ficcarglisi nell'anima e nel corpo quando fu guarito.

— Lasciatemi stare! — diceva alla Lupa — per caritá, lasciatemi in pace! Io ho visto la morte cogli occhi! La povera Maricchia non fa che disperarsi. Ora tutto il paese lo sa! Quando non vi vedo é meglio per voi e per me ... Ed avrebbe voluto strapparsi gli occhi per non vedere quelli della Lupa, che quando gli si ficcavano ne' suoi gli facevano perdere l'anima e il corpo. Non sapeva piú che fare per svincolarsi dall'incantesimo. Pagó delle messe alle anime del Purgatorio, e andó a chiedere aiuto al parroco e al brigadiere. A Pasqua andó a confessarsi, e fece pubblicamente sei palmi di lingua a strasciconi sui ciottoli del sacrato innanzi alla chiesa, in penitenza — e poi, come la Lupa tornava a tentarlo:

— Sentite! — le disse — non ci venite piú nell'aia, perché se tornate a cercarmi, com'é vero Iddio, vi ammazzo!

— Ammazzami, — rispose la Lupa — ché non me ne importa; ma senza di te non voglio starci. Ei come la scorse da lontano, in mezzo a' seminati verdi, lasció di zappare la vigna, e andó a staccare la scure dall'olmo. La Lupa lo vide venire, pallido e stralunato, colla scure che luccicava al sole, e non si arretró di un sol passo, non chinó gli occhi, seguitó ad andargli incontro, con le mani piene di manipoli di papaveri rossi, e mangiandoselo con gli occhi neri. — Ah! malanno all'anima vostra! — balbettó Nanni.

A Salvatore Farina.

Caro Farina, eccoti non un racconto, ma l'abbozzo di un racconto. Esso almeno avrá il merito di essere brevissimo, e di esser storico — un documento umano, come dicono oggi - interessante forse per te, e per tutti coloro che studiano nel gran libro del cuore. Io te lo ripeteró cosí come l'ho raccolto pei viottoli dei campi, press'a poco colle medesime parole semplici e pittoresche della narrazione popolare, e tu veramente preferirai di trovarti faccia a faccia col fatto nudo e schietto, senza stare a cercarlo fra le linee del libro, attraverso la lente dello scrittore. Il semplice fatto umano fará pensare sempre; avrá sempre l'efficacia dell'esser stato, delle lagrime vere, delle febbri e delle sensazioni che sono passate per la carne; il misterioso processo per cui le passioni si annodano , si intrecciano, maturano, si svolgono nel loro cammino sotteraneo, nei loro andirivieni che spesso sembrano contradditorí, costituirá per lungo tempo ancora la possente attrattiva di quel fenomeno psicologico che forma l'argomento di un racconto, e che l'analisi moderna si studia di seguire con scrupolo scientifico. Di questo che ti narro oggi, ti diró soltanto il punto di partenza e quello d'arrivo, e per te basterá, — e un giorno forse basterá per tutti.

Noi rifacciamo il processo artistico al quale dobbiamo tanti monumenti gloriosi, con metodo diverso, piú minuzioso e piú intimo. Sacrifichiamo volentieri l'effetto della catastrofe, allo sviluppo logico, necessario delle passioni e dei fatti verso la catastrofe resa meno impreveduta, meno drammatica forse, ma non meno fatale. Siamo piú modesti, se non piú umili; ma la dimostrazione di cotesto legame oscuro tra cause ed effetti non sará certo meno utile all'arte dell'avvenire. Si arriverá mai a tal perfezionamento nello studio delle passioni, che diventerá inutile il proseguire in cotesto studio dell'uomo interiore? La scienza del cuore umano, che sará il frutto della nuova arte, svilupperá talmente e cosí generalmente tutte le virtú dell'immaginazione, che nell'avvenire i soli romanzi che si scriveranno saranno i fatti diversi?

Quando nel romanzo l'affinitá e la coesione di ogni sua parte sará cosí completa, che il processo della creazione rimarrá un mistero, come lo svolgersi delle passioni umane, e l'armonia delle sue forme sará cosí perfetta, la sinceritá della sua realtá cosí evidente, il suo modo e la sua ragione di essere cosí necessarie, che la mano dell'artista rimarrá assolutamente invisibile, allora avrá l'impronta dell'avvenimento reale, l'opera d'arte sembrerá essersi fatta da sé, aver maturato ed esser sorta spontanea come un fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo autore, alcuna macchia del peccato d'origine.

L'amante di gramigna

Parecchi anni or sono, laggiú lungo il Simeto, davano la caccia a un brigante, certo Gramigna, se non erro, un nome maledetto come l'erba che lo porta, il quale da un capo all'altro della provincia s'era lasciato dietro il terrore della sua fama. Carabinieri, soldati, e militi a cavallo, lo inseguivano da due mesi, senza esser riesciti a mettergli le unghie addosso: era solo, ma valeva per dieci, e la mala pianta minacciava di moltiplicarsi. Per giunta si approssimava il tempo della messe, tutta la raccolta dell'annata in man di Dio, ché i proprietarii non s'arrischiavano a uscir dal paese per timor di Granmigna; sicché le lagnanze erano generali. Il prefetto fece chiamare tutti quei signori della questura, dei carabinieri, e dei compagni d'armi, e subito in moto pattuglie, squadriglie, vedette per ogni fossato, e dietro ogni muricciolo: se lo cacciavano dinanzi come una mala bestia per tutta una provincia, di giorno, di notte, a piedi, a cavallo, col telegrafo. Gramigna sgusciava loro di mano, o rispondeva a schioppettate, se gli camminavano un po' troppo sulle calcagna. Nelle campagne, nei villaggi, per le fattorie, sotto le frasche delle osterie, nei luoghi di ritrovo, non si parlava d'altro che di lui, di Gramigna, di quella caccia accanita, di quella fuga disperata. I cavalli dei carabinieri cascavano stanchi morti; i compagni d'armi si buttavano rifiniti per terra, in tutte le stalle; le pattuglie dormivano all'impiedi; egli solo, Gramigna, non era stanco mai, non dormiva mai, combatteva sempre, s'arrampicava sui precipizi, strisciava fra le messi, correva carponi nel folto dei fichidindia, sgattajolava come un lupo nel letto asciutto dei torrenti. Per duecento miglia all'intorno, correva la leggenda delle sue gesta, del suo coraggio, della sua forza, di quella lotta disperata, lui solo contro mille, stanco, sffamato, arso dalla sete, nella pianura immensa, arsa, sotto il sole di giugno.

Peppa, una delle piú belle ragazze di Licodia, doveva sposare in quel tempo compare Finu 'candela di sego' che aveva terre al sole e una mula baia in stalla, ed era un giovanotto grande e bello come il sole, che portava lo stendardo di Santa Margherita come fosse un pilastro, senza piegare le reni.

La madre di Peppa piangeva dalla contentezza per la gran fortuna toccata alla figliuola, e passava il tempo a voltare e rivoltare nel baule il corredo della sposa, 'tutto di roba bianca a quattro' come quella di una regina, e orecchini che le arrivavano alle spalle, e anelli d'oro per le dieci dita delle mani: dell'oro ne aveva quanto ne poteva avere Santa Margherita, e dovevano sposarsi giusto per Santa Margherita, che cadeva in giugno, dopo la mietitura del fieno. 'Candela di sego' nel tornare ogni sera dalla campagna, lasciava la mula all'uscio della Peppa, e veniva a dirle che i seminati erano un incanto, se Gramigna non vi appiccava il fuoco, e il graticcio di contro al letto non sarebbe bastato a contenere tutto il grano della raccolta, che gli pareva mill'anni di condursi la sposa in casa, in groppa alla mula bianca. Ma Peppa un bel giorno gli disse:

— La vostra mula lasciatela stare, perché non voglio maritarmi. Figurati il putiferio! La vecchia si strappava i capelli, 'Candela di sego' rimasto a bocca aperta. Che é, che non é Peppa s'era scaldata la testa per Gramigna, senza conoscerlo neppure. Quello sí, ch'era un uomo!

— Che ne sai? — Dove l'hai visto? — Nulla. Peppa non rispondeva neppure, colla testa bassa, la faccia dura, senza pietá per la mamma che faceva come una pazza, coi capelli grigi al vento, e pareva una strega. — Ah! quel demonio é venuto sin qui a stregarmi la mia figliuola!

Le comari che avevano invidiato a Peppa il seminato prosperoso, la mula baia, e il bel giovanotto che portava lo stendardo di Santa Margherita senza piegar le reni, andavano dicendo ogni sorta di brutte storie, che Gramigna veniva a trovare la ragazza di notte in cucina, e che glielo avevano visto nascosto sotto il letto. La povera madre teneva accesa una lampada alle anime del purgatorio, e persino il curato era andato in casa di Peppa, a toccarle il cuore colla stola, onde scacciare quel diavolo di Gramigna che ne aveva preso possesso. Peró ella seguitava a dire che non lo conosceva neanche di vista quel cristiano; ma invece pensava sempre a lui, lo vedeva in sogno , la notte, e alla mattina si levava colle labbra arse assetata anch'essa come lui. Allora la vecchia la chiuse in casa, perché non sentisse piú parlare di Gramigna; e tappó tutte le fessure dell'uscio con immagini di santi. Peppa ascoltava quello che dicevano nella strada, dietro le immagini benedette, e si faceva pallida e rossa, come se il diavolo le soffiasse tutto l'inferno nella faccia. Finalmente si sentí che avevano scovato Gramigna nei fichidindia di Palagonia. — Ha fatto due ore di fuoco! — dicevano - c'é un carabiniere morto, e piú di tre compagni d'armi feriti. Ma gli hanno tirato addosso tal gragnuola di fucilate che stavolta hanno trovato un lago di sangue dove egli era stato. Una notte Peppa si fece la croce dinanzi al capezzale della vecchia e fuggí dalla finestra. Gramigna era nei fichidindia di Palagonia — non avevano potuto scovarlo in quel forteto da conigli, lacero, insanguinato, pallido per due giorni di fame, arso dalla febbre, e colla carabina spianata. Come la vide venire, risoluta, in mezzo alle macchie fitte, nel fosco chiarore dell'alba, ci pensó un momento, se dovesse lasciar partire il colpo.

— Che vuoi? — le chiese — Che vieni a far qui? Ella non rispose, guardandolo fisso.

— Vattene! — diss'egli — vattene, finché t'aiuta Cristo!

— Adesso non posso piú tornare a casa; — rispose lei - la strada é tutta piena di soldati.

— Cosa m'importa? Vattene! E la prese di mira colla carabina. Come essa non si muoveva, Gramigna, sbalordito, le andó coi pugni addosso:

— Dunque? ... Sei pazza? ... O sei qualche spia?

— No, — diss'ella — no!

— Bene, va a prendermi un fiasco d'acqua, laggiú nel torrente, quand'é cosí. Peppa andó senza dir nulla, e quando Gramigna udí le fucilate si mise a sghignazzare, e disse fra sé:

— Queste erano per me. Ma poco dopo vide ritornare la ragazza col fiasco in mano, lacera e insanguinata. Egli le si buttó addosso, assetato e poich'ebbe bevuto da mancargli il fiato, le disse infine:

— Vuoi venire con me? Sí, accennó ella col capo avidamente, sí. E lo seguí per valli e monti, affamata, seminuda, correndo spesso a cercargli un fiasco d'acqua o un tozzo di pane a rischio della vita. Se tornava colle mani vuote, in mezzo alle fucilate, il suo amante, divorato dalla fame e dalla sete, la batteva. Una notte c'era la luna, e si udivano latrare i cani, lontano, nella pianura. Gramigna balzó in piedi a un tratto, e le disse:

— Tu resta qui, o t'ammazzo com'é vero Dio! Lei addossata alla rupe, in fondo al burrone, lui invece a correre tra i fichidindia. Peró gli altri, piú furbi, gli venivano incontro giusto da quella parte.

— Ferma! ferma! E le schioppettate fioccarono. Peppa. che tremava solo per lui, se lo vide tornare ferito, che si strascinava appena, e si buttava carponi per ricaricare la carabina.

— finita! — disse lui. — Ora mi prendono — e aveva la schiuma alla bocca, gli occhi lucenti come quelli del lupo. Appena cadde sui rami secchi come un fascio di legna, i compagni d'armi gli furono addosso tutti in una volta. Il giorno dopo lo strascinarono per le vie del villaggio, su di un carro, tutto lacero e sanguinoso. La gente gli si accalcava intorno per vederlo; e la sua amante, anche lei, ammanettata, come una ladra, lei che ci aveva dell'oro quanto Santa Margherita! La povera madre di Peppa dovette vendere 'tutta la roba bianca' del corredo, e gli orecchini d'oro, e gli anelli per le dieci dita , onde pagare gli avvocati di sua figlia , e tirarsela di nuovo in casa, povera, malata, svergognata, e col figlio di Gramigna in collo. In paese nessuno la vide piú mai. Stava rincantucciata nella cucina come una bestia feroce e ne uscí soltanto allorché la sua vecchia fu morta di stenti, e si dovette vendere la casa. Allora, di notte, se ne andó via dal paese, lasciando il figliuolo ai trovatelli, senza voltarsi indietro neppure, e se ne venne alla cittá dove le avevano detto ch'era in carcere Gramigna. Gironzava intorno a quel gran fabbricato tetro, guardando le inferriate, cercando dove potesse esser lui, cogli sbirri alle calcagna, insultata e scacciata ad ogni passo. Finalmente seppe che il suo amante non era piú lí, l'avevano condotto via, di lá del mare, ammanettato e colla sporta al collo. Che poteva fare? Rimase dov'era, a buscarsi il pane rendendo qualche seviizio ai soldati, ai carcerieri, come facesse parte ella stessa di quel gran fabbricato tetro e silenzioso. Verso i carabinieri poi, che le avevano preso Gramigna nel folto dei fichidindia, sentiva una specie di tenerezza rispettosa, come l'ammirazione bruta della forza, ed era sempre per la caserma, spazzando i cameroni e lustrando gli stivali, tanto che la chiamavano 'lo strofinacciolo della caserma'. Soltanto quando partivano per qualche spedizione rischiosa, e li vedeva caricare le armi, diventava pallida e pensava a Gramigna.

Guerra di santi

Tutt'a un tratto, mentre San Rocco se ne andava tranquillamente per la sua strada, sotto il baldacchino, coi cani al guinzaglio, un gran numero di ceri accesi tutt'intorno, e la banda, la processione, la calca dei devoti, accadde un parapiglia, un fuggi fuggi, un casa del diavolo: preti che scappavano colle sottane per aria, trombe e clarinetti sulla faccia, donne che strillavano, il sangue a rigagnoli, e le legnate che piovevano come pere fradicie fin sotto il naso di San Rocco benedetto. Accorsero il pretore, il sindaco, i carabinieri; le ossa rotte furono portate all'ospedale, i piú riottosi andarono a dormire in prigione, il santo tornó in chiesa di corsa piú che a passo di processione, e la festa finí come le commedie di Pulcinella. Tutto ció per l'invidia di que' del quartiere di San Pasquale, perché quell'anno i devoti di San Rocco avevano speso gli occhi della testa per far le cose in grande; era venuta la banda dalla cittá, si erano sparati piú di duemila mortaretti, e c'era persino uno stendardo nuovo, tutto ricamato d'oro, che pesava piú d'un quintale, dicevano, e in mezzo alla folla sembrava una 'spuma d'oro' addirittura. Tutto ció urtava maledettamente i nervi ai devoti di San Pasquale, sicché uno di loro alla fine smarrí la pazienza, e si diede a urlare, pallido dalla bile: — Viva San Pasquale! — Allora s'erano messe le legnate. Certo andare a dire 'viva San Pasquale sul mostaccio di San Rocco in persona é una provocazione bella e buona; é come venirvi a sputare in casa, o come uno che si diverta a dar dei pizzicotti alla donna che avete sotto il braccio. In tal caso non c'é piú né cristi né diavoli, e si mette sotto i piedi quel po' di rispetto che si ha anche per gli altri santi, che infine fra di loro son tutt'una cosa. Se si é in chiesa, vanno in aria le panche; nelle processioni piovono pezzi di torcetti come pipistrelli, e a tavola volano le scodelle.

— Santo diavolone! — urlava compare Nino, tutto pesto e malconcio. — Voglio un po' vedere chi gli basta l'anima di gridare ancora 'viva San Pasquale!'.

— Io! — rispose furibondo Turi il 'conciapelli' il quale doveva essergli cognato, ed era fuori di sé per un pugno acchiappato nella mischia, che lo aveva mezzo accecato. — Viva San Pasquale sino alla morte!

— Per l'amor di Dio! per l'amor di Dio! — strillava sua sorella Saridda, cacciandosi tra il fratello ed il fidanzato, ché tutti e tre erano andati a spasso d'amore e d'accordo sino a quel momento. Compare Nino, il fidanzato, vociava per ischerno:

— Viva i miei stivali! viva san stivale!

— Te'! — urló Turi colla spuma alla bocca, e l'occhio gonfio e livido al pari d'un petronciano. — Te' per San Rocco, tu dei stivali! Prendi! Cosí si scambiarono dei pugni che avrebbero accoppato un bue, sino a quando gli amici riuscirono a separarli, a furia di busse e di pedate. Saridda scaldatasi anche lei, strillava 'viva San Pasquale', che per poco non si presero a ceffoni collo sposo, come fossero giá stati marito e moglie. In tali occasioni si accapigliano i genitori coi ficliuoli, e le mogli si separano dai mariti, se per disgrazia una del quartiere di San Pasquale ha sposato un di San Rocco.

— Non voglio sentirne parlare piú di quel cristiano! - sbraitava Saridda, coi pugni sui fianchi, alle vicine che le domandavano come era andato all'aria il matrimonio. — Neanche se me lo danno vestito d'oro e d'argento, sentite!

— Per conto mio Saridda puó far la muffa! — diceva dal canto suo compare Nino, mentre gli lavavano all'osteria il viso tutto sporco di sangue. — Una manica di pezzenti e di poltroni, in quel quartiere di conciapelli! Quando m'é saltato in testa d'andare a cercarmi colá l'innamorata dovevo essere ubbriaco.

— Giacch'é cosí! — aveva conchiuso il sindaco — e non si puó portare un santo in piazza senza legnate, che é una vera porcheria, non voglio piú feste, né quarant'ore! e se mi mettono fuori un moccolo, che é un moccolo! li caccio tutti in prigione. La faccenda poi s'era fatta grossa, perché il vescovo della diocesi aveva accordato il privilegio di portar la mozzetta ai canonici di San Pasquale, e quelli di San Rocco, che avevano i preti senza mozzetta, erano andati fino a Roma, a fare il diavolo ai piedi del Santo Padre, coi documenti in mano, su carta bollata e ogni cosa; ma tutto era stato inutile, giacché i loro avversari del quartiere basso, che ognuno se li rammentava senza scarpe ai piedi, s'erano arricchiti come porci, colla nuova industria della concia delle pelli, e a questo mondo si sa che la giustizia si compra e vende come l'anima di Giuda. A San Pasquale aspettavano il delegato di monsignore, il quale era un uomo di proposito, che ci aveva due fibbie d'argento di mezza libra l'una alle scarpe, chi l'aveva visto, e veniva a portare la mozzetta ai canonici; perció avevano scritturato anche loro la banda, per andare ad incontrare il delegato di monsignore tre miglia fuori del paese, e si diceva che la sera ci sarebbero stati i fuochi in piazza, con tanto di 'Viva San Pasquale' a lettere di scatola. Gli abitanti del quartiere alto erano quindi in gran fermento, e alcuni, piú eccitati, mondavano certi randelli di pero e di ciriegio grossi come stanghe, e borbottavano:

— Se ci dev'essere la musica, si ha da portar la battuta! Il delegato del vescovo correva un gran pericolo di uscirne colle ossa rotte, dalla sua entrata trionfale. Ma il reverendo, furbo, lasció la banda ad aspettarlo fuor del paese, e a piedi, per le scorciatoie, se ne venne pian piano alla casa del parroco, dove fece riunire i caporioni dei due partiti. Come quei galantuomini si trovarono faccia a faccia, dopo tanto tempo che litigavano, cominciarono a guardarsi nel bianco degli occhi, quasi sentissero una gran voglia di strapparseli a vicenda, e ci volle tutta l'autoritá del reverendo, il quale s'era messo per la circostanza il ferraiuolo di panno nuovo, per far servire i gelati e gli altri rinfreschi senza inconvenienti.

— Cosí va bene! — approvava il sindaco col naso nel bicchiere — quando mi volete per la pace, mi ci trovate sempre. Il delegato disse infatti ch'egli era venuto per la conciliazione, col ramoscello d'ulivo in bocca, come la colomba di Noé, e facendo il fervorino andava distribuendo sorrisi e strette di mano, e andava dicendo:

— Loro signori favoriranno in sagrestia, a prendere la cioccolata, il dí della festa.

— Lasciamo stare la festa, — disse il vice-pretore — se no nasceranno degli altri guai.

— I guai nasceranno se si fanno di queste prepotenze, che uno non é piú padrone di spassarsela come vuole, spendendo i suoi denari! — esclamó Bruno il carradore.

— Io me ne lavo le mani. Gli ordini del governo sono precisi. Se fate la festa mando a chiamare i carabinieri. Io voglio l'ordine.

— Dell'ordine rispondo io — sentenzió il sindaco, picchiando in terra coll'ombrello e girando lo sguardo intorno.

— Bravo! come se non si sapesse che chi vi tira i mantici in Consiglio é vostro cognato Bruno! — ripicchió il vice-pretore.

— E voi fate l'opposizione per la picca di quella contravvenzione del bucato che non potete mandar giú!

— Signori miei! signori miei! — andava raccomandando il delegato. — Cosí non facciamo nulla.

— Faremo la rivoluzione, faremo! — urlava Bruno colle mani in aria. Per fortuna, il parroco aveva messo in salvo, lesto lesto, le chicchere i i bicchieri, e il sagrestano era corso a rompicollo a licenziare la banda, che, saputo l'arrivo del delegato, accorreva a dargli il benvenuto, soffiando nei corni e nei tromboni.

— Cosí non si fa nulla! — borbottava il delegato; e gli seccava pure che le messi fossero giá mature di lá delle sue parti, mentre ei se ne stava a perdere il suo tempo con compare Bruno e col vice-pretore, che volevano mangiarsi l'anima.

— Cos'é questa storia della contravvenzione pel bucato?

— Le solite prepotenze. Ora non si puó sciorinare un fazzoletto da naso alla finestra, che subito vi chiappano la multa. La moglie del vice-pretore, fidandosi che suo marito era in carica, — sinora un po' di riguardo c'era sempre stato per le autoritá, — soleva mettere ad asciugare sul terrazzino tutto il bucato della settimana, si sa ... quel po' di grazia di Dio! ... Ma adesso, colla nuova legge, é peccato mortale, e son proibiti perfino i cani e le galline, e gli altri animali, con rispetto, che fino ad ora facevano la polizia delle strade; alle prime pioggie, se Dio vuole, l'avremo sino al mostaccio, il sudiciume. Il delegato, per conciliare gli animi, stava inchiodato nel confessionario come una civetta, dalla mattina alla sera, e tutte le donne volevano essere confessate da lui; ci aveva l'assoluzione plenaria per ogni sorta di peccati, quasi fosse stata la persona stessa di monsignore.

— Padre! — gli diceva Saridda col naso alla graticola del confessionario — Compare Nino ogni domenica mi fa far peccati in chiesa.

— In che modo, figliuola mia?

— Quel cristiano doveva esser mio marito, prima che vi fossero queste chiacchiere in paese; ma ora che il matrimonio é rotto, si pianta vicino all'altar maggiore, per guardarmi, e ridere coi suoi amici, tutto il tempo della messa. E come il reverendo cercava di toccare il cuore a compare Nino:

— lei piuttosto che mi volta le spalle, quando mi vede, quasi fossi uno scomunicato — rispondeva il contadino. Egli invece, se la gná Saridda passava dalla piazza la domenica, affettava di esser tutt'uno col brigadiere, o con qualche altro pezzo grosso, e non si accorgeva nemmeno di lei. Saridda era occupatissima a preparare lampioncini di carta colorata, e glieli schierava sul naso, lungo il davanzale, col pretesto di metterli ad asciugare. Una volta che si trovarono insieme in un battesimo, non si salutarono nemmeno, come se non si fossero mai visti, e anzi Saridda fece la civetta col compare che aveva battezzata la bambina.

— Compare da strapazzo! — sogghignava Nino — Compare di bambina! Quando nasce una femmina si rompono persino i travicelli del tetto. E Saridda, fingendo di parlare colla puerpera:

— Tutto il male non viene per nuocere. Alle volte quando vi pare d'aver perso un tesoro, dovete ringraziar Dio e San Pasquale! ché prima di conoscere bene una persona bisogna mangiare sette salme di sale.

— Giá, le disgrazie bisogna pigliarle come vengono, e il peggio é guastarsi il sangue per cose che non ne valgono la pena. Morto un papa, se ne fa un altro. In piazza suonava il tamburo, quello della meta.

— Il sindaco dice che vi sará la festa — sussurravano nella folla.

— Litigheró sino alla consumazione dei secoli! Mi ridurró povero e in camicia come il Santo Giobbe, ma quelle cinque lire di multa non le pagheró, dovessi lasciarlo nel testamento!

— Sangue d'un cane! che festa vogliono fare se quest'anno morremo tutti di fame? — esclamava Nino. Sin dal mese di marzo non pioveva una goccia d'acqua, e i seminati, gialli, che scoppiettavano come l'esca 'morivano di sete'. Bruno il carradore diceva invece che appena San Pasquale esciva in processione pioveva di certo. Ma che gliene importava della pioggia a lui, se faceva il carradore, e a tutti gli altri conciapelli del suo partito? ... Infatti portarono San Pasquale in processione a levante e a ponente, e l'affacciarono sul poggio, a benedir la campagna, in una giornata afosa di maggio, tutta nuvoli — una di quelle giornate in cui i contadini si strappano i capelli dinanzi ai campi 'bruciati', e le spighe chinano il capo proprio come se morissero.

— San Pasquale maledetto! — gridava Nino sputando in aria, e correndo come un pazzo pel seminato. — M'avete rovinato, San Pasquale ladro! Non mi avete lasciato altro che la falce per tagliarmi il collo! Nel quartiere alto era una desolazione: una di quelle annate lunghe, in cui la fame comincia a giugno, e le donne stanno sugli usci, spettinate e senza far nulla, coll'occhio fisso. La gná Saridda, all'udire che si vendeva in piazza la mula di compare Nino, onde pagare il fitto della terra che non aveva dato nulla, si sentí sbollire la collera in un attimo, e mandó in fretta e in furia suo fratello Turi, con quei soldi che avevano da parte, per aiutarlo. Nino era in un canto della piazza, cogli occhi astratti e le mani in tasca, mentre gli vendevano la mula, tutta in fronzoli e colla cavezza nuova.

— Non voglio nulla — ei rispose torvo. — Le braccia mi restano ancora, grazie a Dio! Bel santo, quel San Pasquale, eh! Turi gli voltó le spalle per non finirla brutta, e se ne andó. Ma la veritá era che gli animi si trovavano esasperati, ora che San Pasquale l'avevano portato in processione a levante e a ponente con quel bel risultato. Il peggio era che molti del quartiere di San Rocco si erano lasciati indurre ad andare colla processione anche loro, picchiandosi come asini, e colla corona di spine in capo, per amor del seminato. Ora poi si sfogavano in improperi, tanto che il delegato di monsignore aveva dovuto battersela a piedi e senza banda, com'era venuto. Il vice-pretore, per prendersi una rivincita sul carradore, telegrafava che gli animi erano eccitati, e l'ordine pubblico compromesso; sicché un bel giorno si udí la notizia che nella notte erano arrivati i compagni d'arme e ognuno poteva andare a vederli nello stallatico.

— Son venuti pel colera — dicevano peró degli altri. - Laggiú nella cittá la gente muore come le mosche. Lo speziale mise il catenaccio alla bottega, e il dottore scappó il primo di tutti perché non l'accoppassero.

— Non sará nulla, — dicevano quei pochi rimasti in paese, che non erano potuti fuggire qua e lá per la campagna.

— San Rocco benedetto lo guarderá il suo paese, e il primo che va in giro di notte gli faremo la pelle. E anche quelli del quartiere basso erano corsi a piedi scalzi nella chiesa di San Rocco. Peró di lí a poco i colerosi cominciarono a spesseggiare come i goccioloni grossi che annunziano il temporale — e di questo dicevasi ch'era un maiale, e aveva voluto morire per fare una scorpacciata di fichidindia — e di quell'altro che era tornato da campagna a notte fatta. Insomma il colera era avvenuto bello e buono, malgrado la guardia, e alla barba di San Rocco, nonostante che una vecchia in odore di santitá avesse sognato che San Rocco in persona le diceva:

— Del colera non abbiate paura, che ci penso io, e non sono come quel disutilaccio di San Pasquale. Nino e Turi non si erano piú visti dopo l'affare della mula; ma appena il contadino intese dire che fratello e sorella erano malati tutti e due, corse alla loro casa, e trovó Saridda nera e contraffatta, in fondo alla stanzuccia, accanto a suo fratello il quale stava meglio, lui, ma si strappava i capelli e non sapeva piú che fare.

— Ah! San Rocco ladro! — si mise a gemere Nino - Questa non me l'aspettavo! O gná Saridda, che non mi conoscete piú? Nino, quello di una volta? La gná Saridda lo guardava con certi occhi infossati che ci voleva la lanterna a trovarli, e Nino ci aveva due fontane ai suoi occhi.

— Ah, San Rocco! — diceva lui — questo tiro é piú birbone di quello che ci ha fatto San Pasquale! Peró la Saridda guarí, e mentre stava sull'uscio, col capo avvolto nel fazzoletto, gialla come la cera vergine, gli andava dicendo:

— San Rocco mi ha fatto il miracolo, e dovete venirci anche voi, a portargli la candela per la sua festa. Nino, col cuore gonfio, diceva di sí col capo; ma intanto aveva preso il male anche lui, e stette per morire. Saridda allora si graffiava il viso, e diceva che voleva morire con lui, e si sarebbe tagliati i capelli e glieli avrebbe messi nel cataletto, ché nessuno l'avrebbe piú vista in faccia finché era viva.

— No! no! — rispondeva Nino col viso disfatto — I capelli torneranno a crescere; ma chi non ti vedrá piú saró io, che saró morto.

— Bel miracolo che ti ha fatto San Rocco ! — gli diceva Turi per consolarlo. E tutti e due, convalescenti, mentre si scaldavano al sole, colle spalle al muro e il viso lungo, si gettavano in viso l'un l'altro San Rocco e San Pasquale. Una volta passó Bruno il carradore, che tornava di fuori a colera finito, e disse:

— Vogliamo fare una gran festa, per ringraziare San Pasquale di averci salvati tutti quanti siamo. D'ora innanzi non ci saranno piú arruffapopoli, né oppositori, ora che é morto quel vice-pretore che ha lasciato la lite nel testamento.

— Sí, faremo la festa per quelli che son morti! — sogghignó Nino.

— E tu che sei vivo per San Rocco forse?

— La volete finire, — saltó su Saridda — che poi ci vorrá un altro colera, per far la pace!

Pentolaccia

Adesso viene la volta di Pentolaccia ch'é un bell'originale anche lui, e ci fa la sua figura fra tante bestie che sono alla fiera, e ognuno passando gli dice la sua. Lui quel nomaccio se lo meritava proprio, ché aveva la pentola piena tutti i giorni, prima Dio e sua moglie, e mangiava e beveva alla barca di compare don Liborio, meglio di un re di corona. Uno che non abbia mai avuto il viziaccio della gelosia, e ha chinato sempre il capo in santa pace, che Santo Isidoro ce ne scampi e liberi, se gli salta poi il ghiribizzo di fare il matto, la galera gli sta bene. Aveva voluto sposare la Venera per forza, sebbene non ci avesse né re né regno, e anche lui dovesse far capitale sulle sue braccia per buscarsi il pane. Inutile sua madre, poveretta, gli dicesse: — Lascia star la Venera, che non fa per te; porta la mantellina a mezza testa, e fa vedere il piede quando va per la strada. — I vecchi ne sanno piú di noi, e bisogna ascoltarli, pel nostro meglio. Ma lui ci aveva sempre pel capo quella scarpetta e quegli occhi ladri che cercavano il marito fuori della mantellina: perció se la prese senza volere udir altro, e la madre uscí di casa, dopo trent'anni che c'era stata, perché suocera e nuora insieme ci stanno proprio come cani e gatti. La nuora, con quel suo bocchino melato, tanto disse e tanto fece che la povera vecchia brontolona dovette lasciarle il campo libero, e andarsene a morire in un tugurio; fra marito e moglie erano anche liti e questioni, ogni volta che doveva pagarsi la mesata di quel tugurio. Quando infine la povera vecchia finí di penare, e lui corse al sentire che le avevano portato il viatico, non poté riceverne la benedizione, né cavare l'ultima parola di bocca alla moribonda, la quale aveva giá le labbra incollate dalla morte, e il viso disfatto, nell'angolo della casuccia dove cominciava a farsi scuro, e aveva vivi solamente gli occhi, coi quali pareva che volesse dirgli tante cose. — Eh? ... Eh? ... Chi non rispetta i genitori fa il suo malanno e la brutta fine. La povera vecchia morí col rammarico della mala riuscita che aveva fatto la moglie di suo figlio; e Dio le aveva accordato la grazia di andarsene da questo mondo, portandosi al mondo di lá tutto quello che ci aveva nello stomaco contro la nuora, che sapeva come gli avrebbe fatto piangere il cuore, al figliuolo. Appena Venera era rimasta padrona della casa, colla briglia sul collo, ne aveva fatte tante e poi tante, che la gente ormai non chiamava altrimenti suo marito che con quel nomaccio, e quando arrivava a sentirlo anche lui, e si avventurava a lagnarsene colla moglie — Tu che ci credi? - gli diceva lei. E basta. Lui allora contento come una pasqua. Era fatto cosí, poveretto, e sin qui non faceva male a nessuno. Se gliel'avessero fatta vedere coi suoi occhi, avrebbe detto che non era vero grazia di Santa Lucia benedetta. A che giovava guastarsi il sangue? C'era la pace, la provvidenza in casa, la salute per giunta, ché compare don Liborio era anche medico; che si voleva d'altro, santo Iddio? Con don Liborio facevano ogni cosa in comune: tenevano una chiusa a mezzeria; ci avevano una trentina di pecore, prendevano insieme dei pascoli in affitto, e don Liborio dava la sua parola in garanzia, quando si andava dinanzi al notaio. Pentolaccia gli portava le prime fave e i primi piselli, gli spaccava la legna per la cucina, gli pigiava l'uva nel palmento; a lui in cambio non gli mancava nulla, né il grano nel graticcio, né il vino nella botte, né l'olio nell'orciuolo; sua moglie bianca e rossa come una mela, sfoggiava scarpe nuove e fazzoletti di seta; don Liborio non si faceva pagar le sue visite, e gli aveva battezzato anche un bambino. Insomma facevano una casa sola, ed ei chiamava don Liborio 'signor compare' e lavorava con coscienza. Su tal riguardo non gli si poteva dir nulla a Pentolaccia. Badava a far prosperare la societá col 'signor compare' il quale perció ci aveva il suo vantaggio anche lui, ed erano contenti tutti. Ora avvenne che questa pace degli angeli si mutó in una casa del diavolo tutt'a un tratto in un giorno solo, in un momento, come gli altri contadini che lavoravano nel maggese, mentre chiacchieravano all'ombra, nell'ora del vespero, vennero per caso a leggergli la vita, a lui e a sua moglie, senza accorgersi che Pentolaccia s'era buttato a dormire dietro la siepe, e nessuno l'aveva visto. — Per questo si suol dire 'quando mangi, chiudi l'uscio, e quando parli, guardati d'attorno'. Stavolta parve proprio che il diavolo andasse a stuzzicare Pentolaccia il quale dormiva, e gli soffiasse nell'orecchio gl'improperii che dicevano di lui, e glieli ficcasse nell'anima come un chiodo. — 'e quel becco di Pentolaccia! — dicevano,

— che si rosica mezzo don Liborio! — e ci mangia e ci beve nel brago! — e c'ingrassa come un maiale! — Che avvenne? Che gli passó pel capo a Pentolaccia? Si rizzó a un tratto senza dir nulla, e prese a correre verso il paese come se l'avesse morso la tarantola, senza vederci piú degli occhi, che fin l'erba e si sassi gli sembravano rossi al pari del sangue. Sulla porta di casa sua incontró don Liborio, il quale se ne andava tranquillamente, facendosi vento col cappello di paglia. — Sentite, 'signor compare', — gli disse — se vi vedo un'altra volta in casa mia, com'é vero Dio, vi faccio la festa! Don Liborio lo guardó negli occhi, quasi parlasse turco, e gli parve che gli avesse dato volta al cervello, con quel caldo, perché davvero non si poteva immaginare che a Pentolaccia saltasse in mente da un momento all'altro di esser geloso, dopo tanto tempo che aveva chiuso gli occhi, ed era la miglior pasta d'uomo e di marito che fosse al mondo.

— Cosa avete oggi, compare? — gli disse.

— Ho , che se vi vedo un'altra volta in casa mia, com'é vero Dio, vi faccio la festa! Don Liborio si strinse nelle spalle e se ne andó ridendo. Lui entró in casa tutto stralunato, e ripeté alla moglie:

— Se vedo qui un'altra volta il 'signor compare' com'é vero Dio, gli faccio la festa! Venera si cacció i pugni sui fianchi, e cominció a sgridarlo e a dirgli degli improperi. Ei si ostinava a dire sempre di sí col capo, addossato alla parete, come un bue che ha la mosca, e non vuol sentir ragione. I bambini strillavano al veder quella novitá. La moglie infine prese la stanga, e lo cacció fuori dell'uscio per levarselo dinanzi, dicendogli che in casa sua era padrona di fare quello che le pareva e piaceva. Pentolaccia non poteva piú lavorare nel maggese, pensava sempre a una cosa, ed aveva una faccia di basilisco che nessuno gli conosceva. Prima d'imbrunire, ed era sabato, piantó la zappa nel solco, e se ne andó senza farsi saldare il conto della settimana. Sua moglie, vedendoselo arrivare senza denari, e per giunta due ore prima del consueto, tornó di nuovo a strapazzarlo, e voleva mandarlo in piazza, a comprarle delle acciughe salate, che si sentiva una spina nella gola. Ma ei non volle muoversi di lí, tenendosi la bambina fra le gambe, che, poveretta, non osava muoversi, e piagnucolava, per la paura che il babbo le faceva con quella faccia. Venera quella sera aveva un diavolo per cappello, e la gallina nera, appollaiata sulla scala, non finiva di chiocciare, come quando deve accadere una disgrazia. Don Liborio soleva venire dopo le sue visite, prima d'andare al caffé, a far la sua partita di tresette; e quella sera Venera diceva che voleva farsi tastare il polso, perché tutto il giorno si era sentita la febbre, per quel male che ci aveva nella gola. Pentolaccia, lui, stava zitto, e non si muoveva dal suo posto. Ma come si udí per la stradicciuola tranquilla il passo lento del dottore che se ne venia adagio adagio, un po' stanco delle visite, soffiando pel caldo, e facendosi vento col cappello di paglia, Pentolaccia andó a prender la stanga colla quale sua moglie lo scacciava fuori di casa, quando egli era di troppo, e si appostó dietro l'uscio. Per disgrazia Venera non se ne accorse, giacché in quel momento era andata in cucina a mettere una bracciata di legna sotto la caldaia che bolliva. Appena don Liborio mise il piede nella stanza, suo compare levó la stanga, e gli lasció cadere fra capo e collo tal colpo, che l'ammazzó come un bue, senza bisogno di medico, né di speziale. Cosí fu che Pentolaccia andó a finire in galera.

Il reverendo

Di reverendo non aveva piú né la barba lunga, né lo scapolare di zoccolante, ora che si faceva radere ogni domenica, e andava a spasso colla sua bella sottana di panno fine, e il tabarro colle rivolte di seta sul braccio. Allorché guardava i suoi campi, e le sue vigne, e i suoi armenti, e i suoi bifolchi, colle mani in tasca e la pipetta in bocca, se si fosse rammentato del tempo in cui lavava le scodelle ai cappuccini, e che gli avevano messo il saio per caritá. si sarebbe fatta la croce colla mano sinistra.

Ma se non gli avessero insegnato a dir messa, e a leggere e a scrivere per caritá, non sarebbe riescito a ficcarsi nelle primarie casate del paese, né ad inchiodare nei suoi bilanci il nome di tutti quei mezzadri che lavoravano e pregavano Dio e la buon'annata per lui, e bestemmiavano poi come turchi al far dei conti. ''Guarda ció che sono e non da chi son nato'' dice il proverbio. Da chi era nato lui, tutti lo sapevano, ché sua madre gli scopava tuttora la casa. Il Reverendo non aveva la boria di famiglia, no; e quando andava a fare il tresette dalla baronessa, si faceva aspettare in anticamera dal fratello, col lanternone in mano.

Nel far del bene cominciava dai suoi, come Dio stesso comanda; e s'era tolta in casa una nipote, belloccia, ma senza camicia, che non avrebbe trovato uno straccio di marito; e la manteneva lui, anzi l'aveva messa nella bella stanza coi vetri alla finestra, e il letto a cortinaggio, e non la teneva per lavorare, o per sciuparsi le mani in alcun ufficio grossolano. Talché parve a tutti un vero castigo di Dio, allorquando la poveraccia fu presa dagli scrupoli, come accade alle donne che non hanno altro da fare, e passano i giorni in chiesa a picchiarsi il petto pel peccato mortale — ma non quando c'era lo zio, ch'ei non era di quei preti i quali amano farsi vedere in pompa magna sull'altare dall'innamorata. Le donne, fuori di casa, gli bastava accarezzarle con due dita sulla guancia, paternamente, o dallo sportellino del confessionario, dopo che s'erano risciacquata la coscienza, e avevano vuotato il sacco dei peccati propri ed altrui, ché qualche cosa di utile ci si apprendeva sempre, per dare la benedizione, uno che speculasse sugli affari di campagna.

Benedetto Dio! egli non pretendeva di essere un sant'uomo, no! I sant'uomini morivano di fame; come il vicario il quale celebrava anche quando non gli pagavano la messa; e andava attorno per le case de' pezzenti con una sottana lacera che era uno scandalo per la Religione. Il Reverendo voleva portarsi avanti; e ci si portava, col vento in poppa; dapprincipio un po' a sghembo per quella benedetta tonaca che gli dava noia, tanto che per buttarla nell'orto del convento aveva fatta causa al Tribunale della Monarchia, e i confratelli l'avevano aiutato a vincerla per levarselo di torno, perché sin quando ci fu lui in convento volavano le panche e le scodelle in refettorio ad ogni elezione di provinciale; il padre Battistino, un servo di Dio robusto come un mulattiere, l'avevano mezzo accoppato, e padre Giammaria, il guardiano, ci aveva rimesso tutta la dentatura. Il Reverendo, lui, stava chiotto in cella, dopo di aver attizzato il fuoco, e in tal modo era arrivato ad esser reverendo con tutti i denti, che gli servivano bene; e al padre Giammaria che era stato lui a ficcarsi quello scorpione nella manica, ognuno diceva: — Ben gli sta!

Ma il padre Giammaria, buon uomo, rispondeva, masticandosi le labbra colle gengive nude:

— Che volete? Costui non era fatto per cappuccino. come papa Sisto, che da porcaio arrivó ad essere quello che fu. Non avete visto ció che prometteva da ragazzo?

Per questo padre Giammaria era rimasto semplice guardiano dei Cappuccini, senza camicia e senza un soldo in tasca, a confessare per l'amor di Dio, e cuocere la minestra per i poveri.

Il Reverendo, da ragazzo, come vedeva suo fratello, quello del lanternone, rompersi la schiena a zappare, e le sorelle che non trovavano marito neanche a regalarle, e la mamma la quale filava al buio per risparmiar l'olio della lucerna, aveva detto: — Io voglio esser prete! — Avevano venduto la mula e il campicello, per mandarlo a scuola, nella speranza che se giungevano ad avere il prete in casa ci avevano meglio della chiusa e della mula. Ma ci voleva altro per mantenerlo al seminario! Allora il ragazzo si mise a ronzare attorno al convento perché lo pigliassero novizio; e un giorno che si aspettava il provinciale, e c'era da fare in cucina, lo accolsero per dare una mano. Padre Giammaria, il quale aveva il cuore buono, gli disse: — Ti piace lo stato? e tu stacci. — E fra Carmelo, il portinaio, nelle lunghe ore d'ozio, che s'annoiava seduto sul muricciuolo del chiostro a sbattere i sandali l'un contro l'altro, gli mise insieme un po' di scapolare coi pezzi di saio buttati sul fico a spauracchio delle passere. La mamma, il fratello e la sorella protestavano che se entrava frate era finita per loro, e rimettevano i denari della scuola, perché non gli avrebbero cavato piú un baiocco. Ma lui che era frate nel sangue, si stringeva nelle spalle, e rispondeva: - Sta a vedere che uno non puó seguire la vocazione a cui Dio l'ha chiamato!

Il padre Giammaria l'aveva preso a ben volere perché era lesto come un gatto in cucina, e in tutti gli uffici vili, persino nel servir la messa, quasi non avesse fatto mai altro in vita sua, cogli occhi bassi, e le labbra cucite come un serafino. - Ora che non serviva piú la messa aveva sempre quegli occhi bassi e quelle labbra cucite, quando si trattava di un affare scabroso coi signori, che c'era da disputarsi all'asta le terre del comune, o da giurare il vero dinanzi al Pretore.

Di giuramenti, nel 1854, dovette farne uno grosso davvero, sull'altare, davanti alla pisside, mentre diceva la santa messa, ché la gente lo accusava di spargere il coléra, e voleva fargli la festa.

— Per quest'ostia consacrata che ho in mano — disse lui ai fedeli inginocchiati sulle calcagna — sono innocente , figliuoli miei! Del resto vi prometto che il flagello cesserá fra una settimana. Abbiate pazienza!

Sí, avevano pazienza! per forza dovevano averla! Poiché egli era tutt'uno col giudice e col capitan d'armi, e il re Bomba gli mandava i capponi a Pasqua e a Natale per disobbligarsi, dicevasi; e gli aveva mandato anche il contravveleno, caso mai succedesse una disgrazia.

Una vecchia zia che aveva dovuto tirarsi in casa, per non fare mormorare il prossimo, e non era piú buona che a mangiare il pane a tradimento, aveva sturato una bottiglia per un'altra, e acchiappó il coléra bell'e buono; ma il nipote stesso, per non fare insospettir la gente, non aveva potuto amministrarle il contravveleno. — Dammi il contravveleno! dammi il contravveleno! — supplicava la vecchia, giá nera come il carbone, senza aver riguardo al medico ed al notaio ch'erano lí presenti, e si guardavano in faccia imbarazzati. Il Reverendo, colla faccia tosta, quasi non fosse fatto suo, borbottava stringendosi nelle spalle: — Non le date retta, che sta delirando. — Il contravveleno, se pur ce l'aveva, il re glielo aveva mandato sotto suggello di confessione, e non poteva darlo a nessuno. Il giudice in persona era andato a chiederglielo ginocchioni per sua moglie che moriva, e s'era sentito rispondere dal Reverendo:

— Comandatemi della vita, amico caro; ma per cotesto negozio, proprio, non posso servirvi.

Questa era storia che tutti la sapevano, e siccome sapevano che a furia di intrighi e d'abilitá era arrivato ad essere l'amico intrinseco del re, del giudice e del capitan d'armi, che aveva la polizia come l'Intendente, e i suoi rapporti arrivavano a Napoli senza passar per le mani del Luogotenente, nessuno osava litigare con lui, e allorché gettava gli occhi su di un podere da vendere, o su di un lotto di terre comunali che s'affittavano all'asta, gli stessi pezzi grossi del paese, se s'arrischiavano a disputarglielo, lo facevano coi salamelecchi, e offrendogli una presa di tabacco. Una volta, col barone istesso, durarono una mezza giornata a tira e molla. Il barone faceva l'amabile, e il Reverendo seduto in faccia a lui, col tabarro raccolto fra le gambe, ad ogni offerta d'aumento gli presentava la tabacchiera d'argento, sospirando:

— Che volete farci, signor barone. Qui é caduto l'asino, e tocca a noi tirarlo su. — Finché si pappó l'aggiudicazione, e il barone tiró su la presa, verde dalla bile.

Cotesto l'approvavano i villani, perché i cani grossi si fanno sempre la guerra fra di loro, se capita un osso buono, e ai poveretti non resta mai nulla da rosicare. Ma ció che li faceva mormorare era che quel servo di Dio li smungesse peggio dell'anticristo, allorché avevano da spartire con lui, e non si faceva scrupolo di chiappare la roba del prossimo, perché gli arnesi della confessione li teneva in mano e se cascava in peccato mortale poteva darsi l'assoluzione da sé.

— Tutto sta ad averci il prete in casa! — sospiravano. E i piú facoltosi si levavano il pan di bocca per mandare il figliuolo al seminario.

— Quando uno si dá alla campagna, bisogna che ci si dia tutto, — diceva il Reverendo, onde scusarsi se non usava riguardi a nessuno. E la messa stessa lui non la celebrava altro che la domenica, quando non c'era altro da fare, che non era di quei pretucoli che corrono dietro al tre tarí della messa. Lui non ne aveva bisogno. Tanto che Monsignor Vescovo, nella visita pastorale, arrivando a casa sua, e trovandogli il breviario coperto di polvere, vi scrisse su col dito ''%deo %gratias''! Ma il Reverendo aveva altro in testa che perdere il tempo a leggere il breviario, e se ne rideva del rimprovero di Monsignore. Se il breviario era coperto di polvere, i suoi buoi erano lucenti, le pecore lanute, e i seminati alti come un uomo, che i suoi mezzadri almeno se ne godevano la vista, e potevano fabbricarvi su bei castelli in aria, prima di fare i conti col padrone. I poveretti slargavano tanto di cuore. - Seminati che sono una magia! Il Signore ci é passato di notte! Si vede che é roba di un servo di Dio, e conviene lavorare per lui che ci ha in mano la messa e la benedizione! — In maggio, all'epoca in cui guardavano in cielo per scongiurare ogni nuvola che passava, sapevano che il padrone diceva la messa pella raccolta, e valeva piú delle immagini dei santi, e dei pani benedetti per scacciare il malocchio e la malannata. Anzi il Reverendo non voleva che spargessero i pani benedetti pel seminato, perché non servono che ad attirare i passeri e gli altri uccelli nocivi. Delle immagini sante poi ne aveva le tasche piene, giacché ne pigliava quante ne voleva in sagrestia, di quelle buone, senza spendere un soldo, e le regalava ai suoi contadini.

Ma alla raccolta, giungeva a cavallo, insieme a suo fratello, il quale gli faceva da campiere, collo schioppo ad armacollo, e non si muoveva piú, dormiva lí, nella malaria, per guardare ai suoi interessi, senza badare neanche a Cristo. Quei poveri diavoli, che nella bella stagione avevano dimenticato i giorni duri dell'inverno, rimanevano a bocca aperta sentendosi sciorinare la litania dei loro debiti. — Tanti rotoli di fave che tua moglie é venuta a prendere al tempo della neve.

— Tanti fasci di sarmenti consegnati al tuo figliuolo. — Tanti tumoli di grano anticipati per le sementi — coi frutti — a tanto il mese. — Fa il conto. — Un conto imbrogliato. Nell'anno della carestia, che lo zio Carmenio ci aveva lasciato il sudore e la salute nelle chiuse del Reverendo, gli toccó di lasciarvi anche l'asino, alla messe, per saldare il debito, e se ne andava a mani vuote, bestemmiando delle parolacce da far tremare cielo e terra. Il Reverendo, che non era lí per confessare, lasciava dire, e si tirava l'asino nella stalla.

Dopo che era divenuto ricco aveva scoperto nella sua famiglia, la quale non aveva mai avuto pane da mangiare, certi diritti ad un beneficio grasso come un canonicato, e all'epoca dell'abolizione delle manimorte aveva chiesto lo svincolo e s'era pappato il podere definitivamente. Solo gli seccava per quei denari che si dovevano pagare per lo svincolo, e dava del ladro di Governo il quale non rilascia gratis la roba dei beneficii a chi tocca.

Su questa storia del Governo egli aveva dovuto inghiottir della bile assai, fin dal 1860, quando avevano fatto la rivoluzione, e gli era toccato nascondersi in una grotta come un topo, perché i villani, tutti quelli che avevano avuto delle quistioni con lui, volevano fargli la pelle. In seguito era venuta la litania delle tasse, che non finiva piú di pagare, e il solo pensarci gli mutava in tossico il vino a tavola. Ora davano addosso al Santo Padre, e volevano spogliarlo del temporale. Ma quando il Papa mandó la scomunica per tutti coloro che acquistassero beni delle manimorte, il Reverendo sentí montarsi la mosca al naso, e borbottó:

— Che c'entra il Papa nella roba mia? Questo non ci ha a far nulla col temporale. — E seguitó a dir la santa messa meglio di prima.

I villani andavano ad ascoltare la sua messa, ma pensavano senza volere alle ladrerie del celebrante, e avevano delle distrazioni. Le loro donne, mentre gli confessavano i peccati, non potevano fare a meno di spifferargli sul mostaccio:

— Padre, mi accuso di avere sparlato di voi che siete un servo di Dio, perché quet'inverno siamo rimasti senza fave e senza grano a causa vostra. — A causa mia! Che li faccio io il bel tempo o la malannata? Oppure devo possedere le terre perché voialtri ci seminiate e facciate i vostri interessi? Non ne avete coscienza, né timore di Dio? Perché ci venite allora a confessarvi? Questo é il diavolo che vi tenta per farvi perdere il sacramento della penitenza. Quando vi mettete a fare tutti quei figliuoli non ci pensate che son tante bocche che mangiano? E che colpa ci ho io poi se il pane non vi basta? Ve li ho fatti far io tutti quei figliuoli? Io mi son fatto prete per non averne.

Peró assolveva, come era obbligo suo; ma nondimeno nella testa di quella gente rozza restava qualche confusione fra il prete che alzava la mano a benedire in nome di Dio, e il padrone che arruffava i conti, e li mandava via dal podere col sacco vuoto e la falce sotto l'ascella.

— Non c'é che fare, non c'é che fare — borbottavano i poveretti rassegnati. — La brocca non ci vince contro il sasso, e col Reverendo non si puó litigare, ché lui sa la legge!

Se la sapeva! Quand'erano davanti al giudice, coll'avvocato, egli chiudeva la bocca a tutti col dire: — La legge é cosí e cosí. — Ed era sempre come giovava a lui. Nel buon tempo passato se ne rideva dei nemici, degli invidiosi. Avevano fatto un casa del diavolo, erano andati dal vescovo, gli avevano gettato in faccia la nipote, massaro Carmenio e la roba malacquistata, gli avevano fatto togliere la messa e la confessione. Ebbene? E poi? Egli non aveva bisogno del vescovo né di nessuno. Egli aveva il fatto suo ed era rispettato come quelli che in paese portano la battuta; egli era di casa della baronessa, e piú facevano del chiasso intorno a lui, peggio era lo scandalo. I pezzi grossi non vanno toccati, nemmeno dal vescovo, e ci si fa di berretto, per prudenza, e per amor della pace. Ma dopo che era trionfata la eresia, colla rivoluzione, a che gli serviva tutto ció? I villani che imparavano a leggere e a scrivere, e vi facevano il conto meglio di voi; i partiti che si disputavano il municipio, e si spartivano la cuccagna senza un riguardo al mondo; il rpimo pezzente che poteva ottenere il gratuito patrocinio, se aveva una quistione con voi, e vi faceva sostener da solo le spese del giudizio! Un sacerdote non contava piú né presso il giudice , né presso il capitano d'armi; adesso non poteva nemmeno far imprigionare con una parolina, se gli mancavano di rispetto, e non era piú buono che a dir messa, e confessare, come un servitore del pubblico. Il giudice aveva paura dei giornali, dell'opinione pubblica, di quel che avrebbero detto Caio e Sempronio, e trinciava giudizi come Salomone! Perfino la roba che si era acquistata col sudore della fronte gliela invidiavano, gli avevano fatto il malocchio e la iettatura; quel po' di grazia di Dio che mangiava a tavola, gli dava gran travaglio, la notte, mentre suo fratello, il quale faceva una vita dura, e mangiava pane e cipolla, digeriva meglio di uno struzzo, e sapeva che di lí a cent'anni, sarebbe stato il suo erede, e si sarebbe trovato ricco senza muovere un dito. La mamma, poveretta, non era piú buona a nulla, e campava per penare e far penare gli altri, inchiodata nel letto dalla paralisi, che bisognava servir lei piuttosto; e la nipote istessa , grassa, ben vestita, provvista di tutto, senza altro da fare che andare in chiesa, lo tormentava, quando le saltava in capo di essere in peccato mortale, quasi ei fosse di quegli scomunicati che avevano spodestato il Santo Padre, e gli aveva fatto levar la messa dal vescovo.

— Non c'é piú religione, né giustizia, né nulla! — brontolava il Reverendo come diventava vecchio. — Adesso ciascuno vuol dir la sua. Chi non ha nulla vorrebbe chiapparvi il vostro. — Levati di lí, che mi ci metto io! — Chi non ha altro da fare viene a cercarvi le pulci in casa. I preti vorrebbero ridurli a sagrestani, dir messa e scopare la chiesa.

La volontá di Dio non vogliono farla piú, ecco cos'é!